NEW YORK, 2 SETTEMBRE – Alla vigilia dei funerali di Mikhail Gorbaciov a Mosca, il Rappresentante Permanente italiano all’Onu ricorda da New York l’ultimo presidente dell’Unione Sovietica morto a 91 anni lo scorso 30 agosto. Giovane diplomatico nella capitale dell’URSS tra 1986 e 1990, Massari ha vissuto in prima linea la rivoluzione della glasnost e della perestroika che ha rievocato oggi in un articolo pubblicato su Limes di cui riportamo il testo.
“Giunsi da giovane diplomatico nell’Urss di Gorbačëv (Gorbaciov) nel novembre del 1986. Per caso, ma non troppo. Ero in carriera da meno di due anni e volevo andare all’estero, ma negli Stati Uniti, a Detroit, non a Mosca. Il capo ufficio del personale del Ministero degli Esteri mi chiamò (eravamo nel settembre 1986) e mi disse “Maurizio, dimentica Detroit, ti chiediamo di andare subito a Mosca”.
Nei vari episodi di spy war della guerra fredda un diplomatico sovietico era stato espulso dalla ambasciata dell’Urss a Roma e, per ritorsione, i sovietici avevano cacciato uno dei nostri diplomatici. Per farci più male avevano ordinato la partenza di un funzionario giovane, parlante il russo e molto attivo nei contatti con i sovietici. Avevo fatto studi di sovietologia, mi ero laureato con una tesi sull’Urss di Brežnev e parlavo russo. E l’ambasciatore italiano a Mosca, Sergio Romano, voleva un funzionario che parlasse russo.
Volente o nolente, insomma, toccava a me. Mi ritrovai dopo nemmeno due mesi paracadutato a Mosca. Era il 10 novembre 1986. Non vi ero mai stato e l’impatto fu scioccante. Trovai una città triste, cupa, con luci fioche, negozi pochi e vuoti, il senso di privazione della gente, gli stagionali che sbarcavano numerosi, quotidianamente, provenienti dalla periferia (i limitciki), alla ricerca disperata di lavoro e cibo. Non potevo nemmeno immaginare che da lì a pochissimo sarebbe successo di tutto e che avrei vissuto in diretta una delle pagine più sensazionali della nostra storia recente. Accadde tutto molto rapidamente e vorrei ricordare alcuni momenti di svolta di quel periodo di trasformazioni straordinarie.
Il primo ricordo è legato all’improvvisa liberazione di Andrei Sakharov dal suo esilio forzato a Gorky. Una sera del dicembre 1986 il leader sovietico chiamò personalmente lo scienziato dissidente tra i più noti in Occidente comunicandogli che sarebbe potuto tornare nel suo appartamento a Mosca. Con l’ambasciatore Romano ci chiedevamo il perché di quel gesto. Giungemmo alla conclusione che Gorbaciov teneva a rinnovare l’immagine dell’Urss in Occidente. Una settimana prima era morto in prigione, dopo uno sciopero della fame, un altro dissidente noto in Occidente, Anatoly Marchenko. Il caso ebbe una forte eco nei media e nelle società occidentali. Si trattava, nell’immediato, di riparare al danno d’immagine.
Ma evidentemente c’era di più del calcolo immediato. Gorbaciov voleva allentare la morsa della repressione del dissenso che poco si conciliava con i piani che si apprestava ad annunciare di riforma (perestrojka) del sistema e apertura all’Occidente. Mi ricordo che con l’ambasciatore Romano andammo quasi subito a trovare Sakharov nel suo modesto appartamento, sull’anello principale di Mosca, con la moglie Yelena Bonner. Era molto provato, parlava a fatica. Ma non esitò a criticare sin da subito il sistema sovietico e la sua dirigenza, cosa che avrebbe continuato a fare con coerenza e onestà intellettuale fino alla sua scomparsa, pochi anni dopo, e dopo essere stato eletto deputato alle prime e ultime elezioni democratiche del parlamento sovietico (Soviet Supremo).
Incontrammo Sakharov molte volte nei mesi e anni successivi. Ricordo un incontro presso la nostra ambasciata in occasione di una visita di una delegazione del Partito comunista italiano e uno scontro verbale al tavolo tra Alessandro Pajetta e Sakharov che criticò fortemente l’atteggiamento di chiusura del Pci rispetto al dissenso sovietico. Lo andai a raccogliere a casa sua con la mia Niva per portarlo nella residenza del nostro ambasciatore una mattina, nell’ottobre 1988, dove lo attendevano il nostro presidente del Consiglio De Mita e Andreotti in visita a Mosca. La zona dell’ambasciata era circondata di polizia. Mi è rimasto impresso il commento di Sakharov in macchina: “sanno sempre tutto, dei miei spostamenti”. Non credeva che il sistema sovietico potesse mai cambiare.
Ma la vera svolta politica si consumò di lì a poco nella riunione plenaria del Comitato centrale del partito comunista sovietico (Pcus), nel gennaio 1987. Gorbaciov lanciò una critica durissima al partito, alla sua dirigenza, indicando l’apatia e la corruzione interna come cause primarie della crisi del sistema e dell’economia. Ci voleva una scossa e Gorbaciov annunciò di volere moralizzare e “democratizzare” il partito al suo interno, a partire dalle elezioni competitive della sua dirigenza a tutti i livelli, in sostituzione della cooptazione. La parola d’ordine era diventata “accountability“. Ricordo che restammo fino a tarda serata in ambasciata attaccati ai rolli dell’agenzia Tass che dava in diretta le notizie dall’interno della plenaria. Non credevamo ai nostri occhi.
Democratizzazione del Partito comunista sovietico: ci sembrava un ossimoro. Ma Gorbaciovera determinato. Aveva deciso di afferrare il toro per le corna e di riformare la politica in funzione della modernizzazione economica. Il contrario, per intenderci, del metodo che Deng aveva inaugurato in Cina dieci anni prima. Si rivelò un tentativo velleitario e autolesionista. La storia gli avrebbe dato torto. Gorbaciov si fece nemici tra i conservatori a destra (il famoso Ligachev) e a sinistra, tra i (pochi) progressisti. I riflessi positivi sull’economia non ci furono, le riforme economiche che avrebbero dovuto sbloccare il sistema furono poche e confuse: ristoranti e caffè gestiti da cooperative e popolati per lo più da noi occidentali, qualche margine di autonomia in più per le imprese statali nella gestione del loro surplus produttivo e poco più.
L’analisi delle crescenti divisioni all’interno del partito provocate dalla svolta di Gorbaciov occupava il tempo di noi diplomatici delle ambasciate occidentali (il gruppo degli “internalists“, esperti di politica interna sovietica). Ci riunivamo regolarmente in locali asonici delle ambasciate, studiavamo meticolosamente i discorsi, confrontavamo le sfumature delle parole dei diversi dirigenti sovietici.
Fu singolare l’esperienza della conoscenza con il progressista El’cin (Eltsin), messo da Gorbaciov stesso a capo della potente macchina del partito a Mosca e destinato a diventare poi il suo carnefice politico. Non posso dimenticare quando Eltsin, con un gesto a dir poco insolito da capo del partito di Mosca, un pomeriggio nell’ottobre del 1987 convocò i rappresentanti delle ambasciate a Mosca, ambasciatori e non. Andai io per l’Italia. Fu un attacco feroce contro la corruzione della politica nei diversi gangli del partito comunista sovietico, contro la quale occorrevano secondo lui misure radicali, non le “timide” riforme di Gorbaciov.
Quello sfogo gli costò la carica di capo del partito di Mosca. Ma equivaleva a una cambiale di popolarità tra la frustrata popolazione sovietica. Le mura del vecchio Arbat, strada storica al centro di Mosca, per qualche giorno furono tappezzate con fotografie e ritratti di Eltsin. Avrebbe incassato quella cambiale negli anni successivi fino a diventare il primo presidente democraticamente eletto della Russia post-sovietica. Lasciai Mosca nel luglio del 1990 subito dopo il XXVII ed ultimo Congresso del Pcus, quando proprio Eltsin gettò via platealmente la tessera del partito. L’onnipotente Pcus si sciolse nel giro di un anno nello sbigottimento generale.
Il terzo blocco di ricordi riguarda il processo di “glasnost” (trasparenza). Nel febbraio 1987, un mese dopo la svolta alla plenaria del Partito, Gorbaciov dichiarò che non dovevano esserci “nomi dimenticati e pagine bianche nella storia sovietica”. Iniziò così la rivisitazione della storia, del periodo dello stalinismo, la denuncia delle repressioni che Gorbaciov definì “imperdonabili”. Iniziò un vero e proprio XX Congresso 2.0 a mezzo stampa. Ricordo che leggevamo con sorpresa nuove (soprattutto per il popolo sovietico) rivelazioni sui quotidiani e soprattutto sulle nuove riviste (Ogonjok, Moskovskie Novosti, Argumenty i fakty) che prosperavano. Nascevano anche le associazioni della società civile e per la difesa dei diritti umani, come Memorial, al cui congresso inaugurale ci riversammo in blocco, diplomatici e giornalisti (e non può che far tristezza la parabola di questa associazione, come noto soppressa quest’anno).
La rassegna della stampa locale che ogni mattina preparavo con i miei collaboratori in ambasciata si arricchiva ogni giorno di più. Un dibattito pubblico che diveniva sempre più aperto, la gente improvvisamente non aveva più paura di esprimere le proprie idee. I corrispondenti italiani e stranieri sfornavano vari articoli al giorno per i loro giornali. Si presentavano alle cene sempre con notevole ritardo: “ho dovuto scrivere un altro pezzo” era la frase ricorrente. Solo qualche mese prima, nel novembre 1986, pochi giorni dopo il mio arrivo a Mosca, il poliziotto che presidiava il compound diplomatico dove abitavo aveva fermato per le scale e impedito l’accesso a un giornalista sovietico della Komsomol’skaja Pravda che avevo invitato per un incontro di lavoro. Non pensai in quel momento che avrei potuto occuparmi molto di stampa… L’osmosi professionale, intellettuale e umana tra diplomatici e giornalisti in una fase di trasformazioni epocali era in quegli anni totale, bellissima, irripetibile e non si può che ricordarla con nostalgia nell’odierno mondo di Whatsapp e dei social.
Un ulteriore blocco di ricordi personali è legato alle iniziative internazionali di apertura al dialogo con l’Occidente e sul disarmo che Gorbaciov lanciò in quegli anni. Soprattutto ricordo una sera – eravamo nel febbraio 1987 – in cui Gorbaciov annunciò al telegiornale serale Vremja che Mosca era pronta a sottoscrivere un’intesa per l’eliminazione reciproca, russa e americana, dei missili nucleari a medio raggio in Europa. Una vera e propria “bomba”. Il trattato Inf (Intermediate-range nuclear forces treaty) fu poi firmato alla fine di quell’anno. Ricordo che, eccitato dalla notizia, salii al piano di sopra per condividerla con il caro amico Franco Venturini, allora corrispondente del Corriere della Sera. La notizia gli era sfuggita perché quella sera la sua interprete era assente. Mi ringraziò e si mise a scrivere fino a tarda sera.
Nella primavera del 1988 vivemmo in diretta un altro momento di svolta con l’annuncio del ritiro (dopo dieci anni) delle truppe sovietiche dall’Afghanistan, una delle forever wars che l’Urss non poteva ormai più permettersi. Infine, il discorso di Gorbaciov al Consiglio d’Europa nel luglio 1989 sulla “casa comune europea”, un appello a far cadere le barriere della guerra fredda sul continente e alla cooperazione pur nel mantenimento dei due sistemi diversi, quello capitalista e quello socialista. Per la prima volta il leader sovietico mise sul tavolo anche il tema della sicurezza ecologica, come possibile terreno di cooperazione fra Est e Ovest. Un discorso molto bello e visionario, ma “Gorbaciov vintage”: velleitario e soprattutto tardivo. Il muro di Berlino sarebbe caduto di lì a poco. Non c’era più tempo e spazio per due sistemi politici ed economici sul continente europeo.
Infine, il ricordo della progressiva disgregazione dell’Urss. I segnali più chiari iniziammo a vederli dalle repubbliche baltiche già a partire dalla fine del 1987. Viaggiavo regolarmente con colleghi diplomatici e giornalisti stranieri. Le manifestazioni per strada in cui anche noi quasi naturalmente confluivamo, ignorando i controlli dei servizi sovietici, le raccolte di firme contro la proposta di Gorbaciov di riformare la Costituzione sovietica che i baltici ormai non riconoscevano e sfidavano.
Nel 1990 le elezioni democratiche nelle quindici repubbliche e poi le dichiarazioni di indipendenza, una dopo l’altra, prima delle repubbliche baltiche, poi anche delle altre, a partire quelle caucasiche. Il tentativo di Gorbaciov di un nuovo patto federativo con meno centralizzazione risultò ancora una volta tardivo. Ormai il dado era tratto. Il 12 giugno 1990 ci fu la Dichiarazione di Sovranità anche della Russia. La fine formale dell’Urss e la carriera politica Gorbaciov erano ormai vicine”.